Nell’epoca della tecnologia, delle programmazioni elettroniche, “Teoria degli affetti”, album di Claudia Fofi, compositrice, cantante, scrittrice, ma ogni etichetta rimane stretta e penso inutile, è come un meteorite… Innanzitutto il titolo, che riporta indietro nel tempo: “Teoria degli affetti”. A me richiama la figura di Athanasius Kircher, gesuita del ‘600, poliedrico scienziato a tutto tondo, tra i primi che scrisse un trattato, all’interno dell’opera Musurgia Universalis che affrontava, con le conoscenze dell’epoca, ma per certi versi, ancora attuale, di come la musica potesse inclinare gli affetti. Le canzoni di Claudia Fofi non solamente inclinano gli affetti, ma hanno la capacità di far pensare, riflettere, domandare.
Leggendo il libretto che accompagna il cd, si può osservare con meraviglia che i musicisti che accompagnano, armonizzano, rivestono le canzoni sono di un livello superiore: Ares Tavolazzi al contrabbasso, Paolo Ceccarelli alle chitarre, Alessandro Gwis al piano, Alessandro Paternesi alla batteria: un insieme che dà bellezza a ciò che è importante, un insieme speciale per accompagnare la voce di Claudia Fofi.
Le foto sono della brava Isabella Sannipoli: quella del retro di copertina, che ritrae Claudia mentre guarda attraverso la tromba di un grammofono la trovo molto evocativa, con una luce che rischiara l’occhio di Claudia: forse attraverso la musica si può vedere in maniera più luminosa o vedersi più chiaramente… chissà…
L’album, ottenuto grazie ad un crowdfunding di Produzioni dal basso, edito da Dodicilune Label e distribuito da IRD (International Record Distribution), si apre con il brano “Se tu”. La musica è un lento rincorrersi tra pianoforte e chitarra, che fanno da base liquida per la voce, mentre la sezione ritmica e il basso, continuano a camminare insieme ma non allo stesso passo, ognuno con la propria idea musicale, rispetto ad un testo e ad una melodia che mostra il senso proprio della poesia. Non certezze, ma il dubbio, l’incomprensione, la domanda: “Se tu vedessi in me la piuma / la luna pallida dell’infanzia / se tu fossi il mio inventore il regolo la pialla / la voce dietro le parole…”. Il “se” è solo di chi cerca e non è sicuro; il “se” è quella congiunzione definita come “ipotetica”, è la mia parte di verità, che frana, che cerca e che contiene la richiesta verso un “tu” che possa comprendere, sforzarsi di trovare un senso che vada oltre all’apparenza o alla diversità. E dopo il “se tu” ci aspettiamo una risposta: “io sarei la pima pallida e il ventaglio / luna pallida in un cielo sereno…” una risposta al condizionale, ovviamente, perchè appartiene ad un “tu” e un “io” che forse si incontreranno, forse si ascolteranno, forse si capiranno come suggerisce la musica che lentamente, dopo un crescendo, si riappacifica e si chiude.Ma questo “Se”, ipotetico, dubbio, possibilità, incertezza attraversa tutto l’album, forse anche l’esistenza di Claudia Fofi. In “Figlia di un Dio minore”, brano dalle sfumature blues, fumose, con momenti in cui la musica sale, si fa incisiva e decisa… per poi rientrare con dissonanze che non si risolvono, tra atmosfere incerte. Claudia canta continuamente “ho operato un cambiamento di rotta”, che esprime un prima e un dopo, una cesura, che forse è una risposta concreta verso questo “se”… il linguaggio metaforico suggerisce, senza però definire: “le parole adatte non le ho trovate per dire cose su cui è meglio tacere”. Il finale lascia intuire con quel “c’è”, in posizione anaforica, degli sviluppi esistenziali: “c’è una corrente d’aria calda / c’è una rosa nel tramonto / c’è la terra solida e compatta”. Se le immagini appartengono al campo semantico della natura madre e non matrigna, le sonorità delle parole insistono tra i suoni dolci del verbo “c’è” e i suoni duri in “r” / “rr” “t” “tt” che imprimono durezza al verso. Ogni scelta, sembra suggerire, porta dentro di sé dolcezza e asprezza.
Nel brano “La valigia dello straniero” quel “se” non è più rivolto a se stessi ma all’altro da me, al migrante, che partendo non sa quale futuro lo aspetterà: “In ogni posto sei uno straniero / se non lo senti nelle gambe / che appartieni al mondo intero”. Si parte con un’idea di appartenenza non geografica ma esistenziale: essere cittadini del mondo e non di un luogo. Ma il tema si approfondisce: “se quel che lasci indietro è poca cosa / se nella tua valigia metti poco il viaggio / sembrerà un po’ più leggero”. Con cosa parti? quali aspettative? quali speranze? La domanda prende il largo: ogni viaggio ha un suo peso, quello che viene descritto non è un viaggio qualsiasi, è il viaggio della vita: “la mia valigia non può essere leggera, perchè dentro c’è la mia vita intera”. La bellezza del simbolo: non si parla di zaino, proprio dei turisti, ma la valigia ricorda la partenza definitiva, quella di cartone legata con lo spago: la valigia è un biglietto di sola andata. Di nuovo il verbo “c’è”, esserci, concreto, essenziale, dal suono dolce perchè profuma di esistenza, poca ma vitale. Anche in questo brano a quei dubbi si risponde con una risposta, finale, estrema e definitiva: “ma in questa barca, per questo mare scuro / io so già dove sto andando”. Io so: il sapere, ovvero la ricerca del sapore della vita, quella che si è perso a causa delle tante violenze, quello che si cerca attraverso la speranza di una vita migliore. Musicalmente il brano inizia con un’improvvisazione alla chitarre, sul tema melodico, di Paolo Ceccarelli: un suono cristallino, che rende il procedere del viaggio, mentre le venature jazzistiche portano il senso del viaggio non lineare, più indecifrabile, come lo è il viaggio dei migranti. Il finale del brano Claudia, sulla ripetizione costante, “viaggiatore senza meta / la meta si fa viaggiando…” raddoppia le voci, perchè sono tanti coloro che salgono sulla barca, così come sono tante le loro grida, come il vocalizzo acuto che si sospende in un climax ascendente e improvviso: quale sarà il loro futuro?
Il “se” ipotetico ritorna, ciclicamente come le stagioni, anche nella canzone “Italia”: una riflessione sui nostri tempi, sull’idea di patria, su certi comportamenti che entrano in relazione alla penisola. La batteria scandisce il tempo del cuore dell’Italia, mentre il suono del piano intesse un’armonia quasi mantrica, ripetitiva. Il testo è simmetrico fino ai versi finali: “Madre, se l’Italia fosse madre / non ci sputerei sopra non ci sputerei sopra. Ghigno, se l’Italia fosse ghigno avrei poco da scherzare avrei poco da scherzare”. Dentro a queste immagini ognuno può pensare, riflettere, mettere in relazioni connessioni sulla propria esperienza rispetto all’Italia, patria ma non solo. Le immagini, concrete semplici e risplendenti di senso si susseguono con la struttura del periodo ipotetico della possibilità o dell’irrealtà con una protasi (“se l’Italia fosse un’attesa”) e una apodosi (“smetterei di aspettare”). Gli ultimi tre versi però sono privi della apodosi: “se ci fosse ancora gente con cui parlare / se l’Italia fosse un porto se l’Italia fosse un campo / se l’Italia avesse occhi, avesse mani, avesse cuore”. I congiuntivi all’imperfetto esprimono, forse, così un’esortazione o un desiderio, sono desiderativi di qualcosa che forse non si trova più, ma lo si continua a cercare.
Ho utilizzato la chiave interpretativa del “se” per provare a comprendere dove la canzone di Claudia Fofi mi poteva portare… penso che non esistano interpretazioni definitive, ma intuizioni che entrano in relazione con il proprio vissuto e portano oltre… La scrittura di Claudia Fofi è alta, poetica, un verso sciolto che riesce ad essere disposto all’interno della forma canzone, destrutturandola e modellandola diversamente. I suoi musicisti sono perfetti, sono capaci di equilibrio e individualità, come la sua voce, chiara, dal fraseggio personale.
“Teoria degli affetti” è album che può essere solo ascoltato, meditato, contemplato.